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venerdì 14 febbraio 2014

Dieci anni senza Marco Pantani: il vuoto lasciato dal 'Pirata' fa ancora male

Marco Pantani se n’è andato il 14 febbraio 2004. Lo trovarono morto in una stanza d’albergo a Rimini, stroncato da un arresto cardiaco dovuto a presunto eccesso di sostanze stupefacenti. Tra i più grandi scalatori di sempre, fu l’ultimo italiano a vincere Giro e Tour nello stesso anno, il 1998. Al Giro del ’99, a Madonna di Campiglio, gli trovarono un valore di ematocrito al di sopra del consentito e fu escluso dalla gara. Fu l’inizio della fine. Dieci anni dopo la sua storia resta una ferita aperta per l’intero mondo sportivo con i dubbi che continuano a inseguirsi. 



Conoscerlo quando già lo obbligavano a mettere giacca e cravatta, a ballare nelle stanze del ciclismo che gli voleva bene, ma aveva paura di lui. Marco Pantani è morto forse nel peccato, ma ha vissuto in modo che ancora adesso, a dieci anni dal suo presunto suicidio, ti fermi ad ascoltare le voci delle montagne che dominava, senti l'eco e il brivido per un angelo caduto dal paradiso nella notte della fuga blindata dall'albergo di Madonna di Campiglio, ma rimasto nella mischia come capita agli uomini che dobbiamo perdonare perché tutti hanno un piede su cui incespicare.  Siamo stati alla sua ruota quando già gli occhi erano tristi, ma andavamo volentieri dietro quelle orecchie a sventola, tanto sapevamo che anche in una giornata di corsa piatta, appena la strada impennava, avremmo sentito urlare in tutte le lingue il suo nome, bastava guardarlo mentre si alleggeriva e poi prendeva tutti i numeri di targa degli avversari dando appuntamento a molto dopo.
Sarà per questo che non è mai morto davvero nel cuore della gente, anche degli scettici, anche di quelli che sapevano di quel sangue troppo vischioso che gli trovarono quando cadde in una discesa.  Era davvero un pirata, un passator cortese che ha ispirato bella musica, registi che sapevano di trovarlo sulle stesso Pordoi del campionissimo Coppi quando l'Italia codina lo aveva scomunicato per la fuga non in corsa, ma nelle braccia delle Dama Bianca.
Il Pantani che abbiamo conosciuto noi era già quello confuso, ma se ti fermavi a studiarlo, sotto i baffi, quella barbetta da Aramis, capivi che per lui avresti potuto negare l'esistenza del male che pure lo angosciava.  Sarà per questo che non esiste corsa senza un cartello capace di farci venire il brivido del ricordo. Sì, è vero, molti ci prendono in giro per questa cotta da Tourmalet, ma non importa. Stiamo più volentieri con i ragazzi che gli dedicano preghiere, raccontano la sua storia in mille modi, quelli della piadina, il clan degli amici veri, quelli che alla fine non riusciva quasi più a riconoscere.  Lo riconosci nei suoi dipinti, nelle canzoni che ascoltava e abbiamo messo del jazz sul mangianastri per tornare con la memoria ai giorni di Marco l'indemoniato che scappava via da tutto, capivi che se ne stava andando verso l'angolo oscuro della forza, ma siamo del partito di quelli che sono ancora dell'idea che è peggio perdonare a tutti che non perdonare a nessuno.
La sua famiglia è un mondo che bacia le sue maglie da campione, pazienza se la chiesa sembra sconsacrata. Era un grande. Lo sarà sempre.